Fabrizio Cotognini, Il teatro capovolto di Fabrizio Cotognini
Testo: Federica Maria Giallombardo

Pensando all’opera di Fabrizio Cotognini – alla singolare crescita artistica che traspare dalla abilità e dalle idee – si sfugge, forse, all’intento dello stesso autore, immaginandosi più un Boito che un Goethe; più un teatro di astrusità che di tradizione tout court. Come lo scapigliato, allo stesso modo l’artista marchigiano non si arresta di fronte ad aspetti circostanziati; anzi, il desiderio di originalità descrive con lo stesso amore il deforme, l’estraneo e la più classica purezza. L’azione modellatrice della tecnica di Cotognini desidera intervenire sulla realtà passata del manufatto per correggere uno stato presente dell’arte; il carattere plastico si prefigge di diffondere comportamenti di tempi lontani; usanze e pose si ripropongono agli occhi dell’osservatore in un’attualità mondana che spesso opacizza la potenza poetica. Innesti cronologici più che materiali: il sentimento e l’ebbrezza della fantasia si traducono in splendore di forma e soprattutto di ritmo; la memoria classicheggiante si tramuta in periodi di immagini vivaci e terribili, dove l’elemento più acre nasce dai tratti più delicati e la fierezza sgorga da una voce satirica e amara. 

Riunendo in un unico concetto: bellezza estenuante di un monstrum sul filo tra antichità e presente. Prodigio, portento, mirabilia; ma anche alterazione, abnormità, ibridismi che rispondono a fattori culturali, ambientali, geografici e temporali. Profanare il lineare e chiaro ideale storico con schiettezza di sentimento e fedeltà di colorito impenetrabile: ciò che guida il tratto di Cotognini è la visione di un teatro capovolto, costruito con congegni e leve in primo piano, rendendo obsoleto il concetto, ricorrente in tutta la pratica espositiva, secondo il quale “il controllo più efficace è segreto e occulto” (Antonio Valleriani). I protagonisti non sono i personaggi chiamati in causa dalla cultura popolare, dal teatro e dalla letteratura; bensì i ragionamenti che collegano tali personaggi a sapienti analisi sul mondo-palcoscenico che vive l’artista contemporaneo. Ecco perché le teche, con stampe e manoscritti riemersi, sembrano condensare il senso finissimo di misura e di documentarismo – ed ecco perché le splendenti Teste, forgiate con materiali sfrenatamente pregiati, simboleggiano da una parte l’eroe alla ricerca di un sapere sublime che continua a sfuggirgli, esempio di hybris punita; dall’altra parte, esprimono le istanze eternamente presenti nell'animo umano, anti-sublimi come la critica corrosiva di ogni valore che si presuma eterno. 

Cotognini è riuscito nell’impresa della rielaborazione intima oltrepassando il solco della tradizione teatrale e faustiana, spingendo a una naturale erosione delle finzioni. Non solamente in maniera esplicita – torna subito alla mente Reversed Theatre – ma anche interiorizzando, con estrema cura nello studio e nella nozionistica, la profonda cultura letteraria e pittorica. Il mito di Faust che, per sete di conoscenza, cede l'anima al diavolo, ha conosciuto diverse letture nel corso della storia; l’artista sceglie di rappresentare i suoi soggetti affrontando sempre il superamento assoluto di una doppiezza, di un limite; immortala le sue figure ibride nel momento della tensione, della divisione e dell’incompletezza appena precedente all’unità storica e formale. In questo senso, le sue opere sono ‘faustiane’ anche quando scalza la citazione diretta: come in ogni trageda barocca, il contatto e il contrasto tra Bene e Male, martire e tiranno, narrativo e causale, metafora e destino avviene nello stesso personaggio – sovrapponendosi all’universale.

Redivivi, perciò, i termini del teatro e dell’architettura che si fa teatro; lo spazio espositivo diviene un palcoscenico di intrattenimento sociale – dal soggetto-artista all’universale, come già scritto – e le opere diventano allegorie corporizzate leggibili, che coinvolgono il pubblico a livello intellettualistico con l’ingegno del patetico che deve movere affetti intensamente individuali. Tipologia comunitaria da cui sorgono miti personali, promossi o riplasmati dalla scoperta della vita interiore e della conoscenza: un’esposizione che teatralizza l’opera subito dopo che il meccanismo osservato rotea, manifestando la propria ricercatezza e tirando le corde della confessione privata. Tutto è, però, evidente, sincero; finalmente palese, lampante come i tanti input del quotidiano. Una ratio edificante che attinge dalla magia della finzione barocca per restituire ancorato al concetto – più autenticamente – il reale nel nostro millennio.