Fabrizio Cotognini, L’alfabeto delle immagini: il potere immaginifico dell’arte di Fabrizio Cotognini
Testo: Camilla Previ

“Da piccolo avrei voluto fare l’archeologo…oggi mi accorgo che di fatto sono un archeologo del contemporaneo” così si conclude la mia breve intervista a Fabrizio Cotognini. Mi fa sorridere la sua spontaneità e la sua umiltà, il suo non rendersi conto che in realtà la natura più intima del suo lavoro è già sintetizzata chiaramente in queste poche parole. Definire Fabrizio solo un artista sarebbe alquanto riduttivo. Meglio gli si addice definirlo un “pensatore nomade”, per il suo essere sempre alla ricerca di qualcosa e per i suoi interessi e studi che spaziano tra diverse discipline: la sociologia, la filosofia, la storia, l’arte classica e contemporanea.

Quando parla del suo lavoro non parte dall’arte classica, come parrebbe scontato alla luce di quello che si vede a prima vista, ma lo introduce con una constatazione che riflette a pieno la società contemporanea.

“Lo sai che è provato che la nostra attenzione si fissa su un’immagine per massimo quattro secondi?” mi incalza. Sociologi e antropologi ci avvertono che ogni giorno ognuno di noi è sottoposto a 20.000 immagini. Sul tema della assuefazione alle immagini e sul conseguente svuotamento di significato di ognuna di esse, Fabrizio cita il filosofo e psicoanalista contemporaneo Slavoy Zizek (Lubiana, 1949) di cui ha studiato con entusiasmo i testi e il pensiero. D’altro canto, anche Gillo Dorfles (Trieste, 1910 – Milano, 2018) ha riflettuto a lungo su questo stesso tema nel suo Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, argomentando quanto la sovrabbondanza di input visivi assilli e sovraccarichi le nostre menti e disinibisca le nostre capacità di interiorizzare e riflettere. Abbiamo bisogno di fermarci e di avere il coraggio di selezionare le storie che davvero vogliamo ascoltare. Abbiamo bisogno di dedicarci al pensiero e all’immaginazione e di fare in modo che questo potere immaginifico riequilibri le nostre vite.

Da queste premesse e da questi assunti, ricreando una sorta di alfabeto delle immagini, Fabrizio con il suo lavoro cerca di ripristinare un immaginario collettivo rappresentativo della società contemporanea, riproponendo il significato che aveva l’immagine nella storia antica. Subisce la fascinazione del repertorio iconografico passato e si appassiona di animali fantastici, di segreti alchemici e misteriofisici, di antichi erbari, di simboli e di miti del mondo classico e medioevale che celano storie fantastiche. Riporta alla luce una sorta di Wunderkammer di immagini e storie, scomponendole, ma in realtà componendole, analizzandole e integrandole con quelle che sono le suggestioni che più l’hanno colpito nella sua quotidianità, ricollocandole in un contesto atemporale e amorale. I suoi animali fantastici nascono per esempio dalle suggestioni dell’arte classica ma anche dallo studio di Risvegli e prodigi dell’alto medioevo di Baltrusaitis (1960) e del Manuale di zoologia fantastica di Borges. Di questi soggetti lo colpisce e lo affascina il loro potere immaginifico e simbolico e i taciti equilibri sottesi. Ai suoi occhi questi animali orribilmente mescolati e imbestialiti incarnano una bellezza sublime, una terribile bellezza. Accanto agli animali, i suoi soggetti più ricorrenti sono appunto fiori e piante riesumate da antichi erbari, indumenti storici, tarocchi, miti e leggende rievocati con lo stesso medesimo principio di richiamo al loro significato sotteso e alla loro perfetta e imperturbabile bellezza. 

Il tratto distintivo del suo lavoro è che, in mezzo a questi soggetti, si ritrovano riferimenti a immagini provenienti dal mondo contemporaneo ma anche dalla sua memoria individuale, dalle sue suggestioni e dalle sue “ossessioni”. Per citare un esempio di questa trasposizione, nella serie “Le bugie” (cf immagine), dedicata ai 12 segreti indecifrati della Porta Alchemica di Massimiliano Palombara, nella tavola II Fabrizio riproduce una donna velata di religione islamica, l’identificazione visiva per lui più prossima e più attuale della Vedova Nera, soggetto e titolo del secondo segreto. Il riferimento alla storia recente e a un repertorio di figure che afferiscono al nostro contemporaneo, è evidente anche nell’inserimento nei suoi lavori di soldati, riconducibili dalla divisa al periodo dei regimi nazionalsocialisti del secolo scorso, e di armi, che ciascuno di noi ha visto ai telegiornali nei recenti conflitti mondiali. Questi soggetti per l’artista rappresentano un modo per poter evidenziare la potenza delle immagini nella propaganda e racchiudono tutta la fascinazione che Fabrizio nutre del tentativo di questi regimi di ricreare e riformulare un linguaggio di simboli e formule, finalizzato a creare una identità collettiva e a indottrinare le masse. 

Conclusa l’analisi delle sue principali tematiche, da un punto di vista estetico, possiamo proseguire affermando che la sua poetica è riconducibile a due espedienti: l’oscuramento e l’inserimento di note a margine fittamente scritte.

Per quanto riguarda la tecnica dell’oscurare, il suo non è mai un gesto dissacratorio o censuratorio ma nasce dall’esigenza di celare quanto non è necessario per raccontare la storia che vuole far emergere. Sottrae per rendere più leggibile. Il gesto è irruento ma mai frutto di una decisione repentina. Prima di intervenire sui suoi soggetti riflette, temporeggia, cerca il coraggio. Ricordiamoci che lavora principalmente su stampe storiche originali per cui nutre un rispetto quasi sacrale ed è consapevole che sta intervenendo e modificando quelli che sono i suoi maestri e i suoi modelli. Come ogni artista ben preparato, sa però che la composizione è fondamentale per cui per ogni parte che sottrae compensa con l’inserimento di nuovi elementi. Oscurare, o occultare, come lo definiscono altri, è finalizzato a indirizzare la lettura dello spettatore sugli elementi che lo interessano. Le sue integrazioni hanno l’intento di universalizzare il contenuto della narrazione e renderlo contemporaneo e più attuale anche agli occhi dei suoi spettatori. Per equilibrare la composizione utilizza disegni fatti a mano con estrema dovizia e maestria, ma inserisce anche note a margine con appunti scritti talmente fittamente che di fatto rimangono indecifrabili, testimonianza del fatto che ogni intervento non è mai casuale ma frutto di uno studio approfondito. L’espediente delle note è l’esito di un percorso di studio anche filosofico. Durante gli anni della sua formazione in Accademia infatti, indirizzato da Giorgio Marangoni, suo mentore e maestro, si interessa e conosce la corrente artistica della poesia visiva e si appassiona tra le altre cose al tema della parola scritta nell’arte, interrogandosi intimamente sulla domanda - a onor del vero dibattuta fin dal Rinascimento - su quale sia tra l’immagine e la parola la forma più nobile. Ne desume che forse sia semplicemente un connubio tra le due. Con lo studio ha interiorizzato e approfondito questi concetti e li ha rinterpretati in una sua particolarissima e preziosissima estetica. Con lo studio ha trovato il coraggio di occultare i grandi maestri del passato facendo proprio l’insegnamento che nella vita a volte bisogna essere spregiudicati per poter ottenere i migliori risultati. E questa temerarietà l’ha fatto approdare di fatto ad una nuova e personalissima bellezza, che risiede si nei contenuti, ma anche nella scelta dei materiali, nella composizione e nella ponderazione del colore. Ad influenzare la sua arte infatti non sono stati solo gli studi accademici ma anche la scuola da orafo che gli ha permesso di ottenere una maestranza particolare nella scelta e lavorazione dei materiali che utilizza nelle sue opere. Lavora sempre su supporti belli al tatto e preziosi, tra cui stampe originali storiche e carta Arabel.  Di questo percorso di studi, lo ha segnato anche il tema del vero e del contraffatto. Nei suoi lavori è di fatto difficilissimo poter distinguere dove inizia il suo intervento, sia che esso sia disegno, sia che sia nota a margine, e dove finisce la stampa originale. Partendo dal bianco e nero ha iniziato negli anni ad integrare i suoi lavori con i colori primari (rosso, blu e giallo) e con la foglio d’oro. All’inizio queste inserzioni si trovavano soprattutto nei disegni, realizzati con matite colorate. Col tempo poi, ha ampliato la gamma dei colori con il verde e l’arancione e ha introdotto innesti di carte lucide colorate, quasi a creare delle quinte teatrali di luci e colori. La sua ricerca non è mai sazia o ferma. La sua vita stessa è permeata di arte, la cui passione è condivisa anche dalla moglie, Laura Paoletti, artista di animo gentile che affronta tematiche intimiste.