Fabrizio Cotognini, Onceuponatime
Testo: Milena Becci

C’era una volta, tutto d’un fiato. È così che si leggono le fiabe, senza pause, con voracità e desiderio di arrivare fino alla fine per conoscerne gli sviluppi. Una volta, ciò che è accaduto, e ora, ciò che stiamo vivendo. Passato e presente. Continuità e cortocircuito. Ciclicità e storia. Storie? Adoro scrivere, leggere e scrutare accadimenti, reali o immaginari. La narrazione è descrizione straordinaria di episodi che si presentano a lettori, uditori o spettatori attenti all’invenzione di chi crea e bramosi della realizzazione di un finale a loro ignoto o a volte minimamente immaginato. Nella Grecia classica le rappresentazioni teatrali figuravano non solo come spettacoli ma anche come cerimonie religiose che avvenivano ad Atene in occasione delle feste in onore di Dionisio. Tragedia, commedia e dramma satiresco ritraevano lo spirito del popolo greco, in balia del raggiungimento di un equilibrio che solo attraverso il Fato era possibile conquistare. La storia è il teatro dell’azione dell’uomo ed in questo palco non esiste distinzione tra passato e presente. L’individuo, costantemente immerso nella società con la quale si confronta e si scontra, prende coscienza del sé attraverso la relazione creando una narrazione a tratti stravagante. La maschera, sin da Tespi, ideatore della tragedia, permetteva al pubblico di individuare immediatamente il personaggio in scena riproducendo marcatamente i lineamenti del viso. Riconoscibilità tempestiva e mimesis della realtà quindi, necessarie alla persona. Il termine prósôpon, che nella Grecia antica designava tanto la maschera quanto il personaggio che la portava, è insito nella parola latina persōna e sta ad indicare la singolarità di ogni individuo. Fabrizio Cotognini narra tali storie. L’ho sempre immaginato immerso nella profonda ricerca delle maschere dell’antichità, dedito ad un passato che con cura e con grande attenzione riporta sul palco dell’arte contemporanea. Ripropone episodi che attraggono sin dal segno che li costituisce, delicato e violento allo stesso tempo, aleatorio ma anche fortemente impresso sul foglio. Un tratto che, come il prósôpon, riferisce vissuti e li ingabbia per permettere a tutti di soddisfare quella brama che sin dalle viscere spinge a guardare. Lo spostamento spaziotemporale messo in atto ci porta a riconsiderare il presente, riflettere su di esso valutando quanto quella mimesis della realtà, tanto cara al teatro, ci catturi in una circolarità senza fine. Un salto da Tespi ad Artaud che ci trasporta nel sentimento di un disagio interiore e di un’agitazione provocata dalla visione. Un mondo surreale in cui il passato ritorna questa volta macchiato dal rosso acceso che emerge dal disegno allontanandoci da ogni percezione momentanea, spiazzandoci e trasportandoci unicamente dentro l’opera. Questo fa Cotognini, questo è il suo desiderio: un trasporto dentro il tratto ed un riconoscimento dell’uomo in quei particolari oltre la struttura quadridimensionale dell’universo. Diviene regista dell’assurdo, rivalutatore di icone di epoche passate nelle quali è ora impossibile riconoscersi poiché le racconta, come lo sciamano fa davanti al fuoco rosso e scoppiettante dello stesso colore purpureo utilizzato dall’artista. La maschera scompare, la rappresentazione è mezzo per trattare il qui ed ora. Architetture, proiezioni, geometrie, figure e parole citano memorie visive attraverso un’intima ricerca che vuole raccontare un’altra realtà. Storie e senso si abbracciano sul foglio delineando una bellezza a volte terrificante che è fil rouge della danza della vita oggi. Senza remore né paure il passato non torna ma esiste già, in regioni che sono terre appartenenti ad ognuno. Questi territori narrano vicende che il disegno cattura e analizza creando un palcoscenico che diviene specchio dell’esistenza senza limiti spazio-temporali.