Fabrizio Cotognini, SULLA TOLDA DE L’OLANDESE VOLANTE
Testo: Paola Ballesi

L’originale lettura de L’Olandese volante nel progetto di Fabrizio Cotognini richiede, come tutte le creazioni più innovative, dei punti di riferimento interpretativi, e, per essere in tema, di seguire le rotte dei grandi Maestri del ’900. Come quella tracciata da Mark Rothko, che nel 1943 con Gottlieb scrive al critico del «Times»: «gli artisti hanno una affinità spirituale con le emozioni che le forme arcaiche e i miti che rappresentano racchiudono», e a seguire: «Noi asseriamo che il soggetto è cruciale, e deve essere legato a un tema tragico e perenne». Una dichiarazione di estetica che, come una linfa vitale, in uno scambio ininterrotto tra passato e presente, irrora e nutre anche la ricerca di Fabrizio Cotognini, che ama definirsi “archeologo del contemporaneo”.  

Entrambi condividono il riferimento a Friedrich Nietzsche, tanto apprezzato dal grande artista statunitense per aver descritto la miseria dell’uomo contemporaneo senza più dei né miti, che corre come un “affamato in mezzo a tutti i passati, e scavando e frugando cerca radici, a costo di scavare per questo nelle antichità più remote”, quanto dal giovane e talentuoso artista maceratese che insegue tracce ora appena affioranti, ora più decise e significanti, nel sedime della storia dell’immaginario, come capitan Willem Van der Decken sulla tolda dell’Olandese volante. E le loro opere, sia pure con modalità e tecniche opposte, per l’uno sciolte in velature e campi di colore, per l’altro sottolineate e cancellate da incursioni grafiche e pittoriche, dunque con attori diversi ma con lo stesso canovaccio, mettono in scena il dramma della pittura, del segno, della scrittura.

Infatti, se Der fliegende Holländer, la Gesamtkunstwerk wagneriana, culmina con la redenzione e la vittoria della forza sovrumana dell’amore che riesce a infrangere il dettato divino della punizione eterna, risolvendo il dramma in un finale di morte e trasfigurazione che suscitò le ire di Friedrich Nietzsche per il tradimento dello “spirito dionisiaco” e dunque del tragico, Fabrizio Cotognini ripropone la storia dell’Olandese volante per orientare il focus sull’esperienza dell’arte,  troppo spesso derubricato a ruolo secondario e di scarso rilievo, e rimetterlo al centro della riflessione contemporanea come il dispositivo più potente per conoscere e affrontare i Lebensstürme, le tempeste della vita e con esse i  temi più “attuali e urgenti della società di oggi”.

Così, proprio a partire dal dettato nietzschiano, che, rovesciando la prospettiva tradizionale di una dimensione estetica appiattita sull’apprendimento sensibile da parte dello spettatore, mette in primo piano l’esperienza creativa dell’artista e il suo interesse formale e di contenuto come un modo più originale e più iniziale di pensare l’arte, Fabrizio Cotognini prende per mano lo spettatore per farlo partecipe della attività libera del suo immaginario che raccoglie e pianta spezzoni di verità facendo incursioni nell’incalcolabile patrimonio di  immagini e storie disseminate dall’ umanità nel corso del tempo.

A distanza di un secolo, come un novello Warburg, nella splendida infilata di sale del piano nobile di Palazzo Buonaccorsi, l’artista costruisce, monta, articola le tavole di un nuovo “Atlante della memoria” che per incanto escono dal libro per diventare esperienza diretta e immaginifica. Una insolita e audace variante di pop up che inaspettatamente si dispiega e dilaga in un intrigante percorso espositivo fatto di immagini custodite in teche, atte a uno scandaglio in profondità, e scene sequenziali simili al progetto di uno storyboard per un film.

Sceglie, seleziona, produce una riserva iconografica attingendo al deposito di immagini espressive custodite nel serbatoio della memoria di vari contesti storico-culturali succedutisi nel tempo, che attraverso la metafora e l’allegoria hanno dato e continuano a dar viva testimonianza della storia delle idee e del potere dell’immaginazione. Si avvale delle documentazioni più disparate: dalle produzioni maggiori alle minori, dalle più evidenti alle più nascoste, ma tutte cooperanti a ricostruire una Geistesgeschichte.  

E proprio da archeologo della cultura, dalla riscoperta della funzione creativa ed espressiva delle immagini, Fabrizio Cotognini allestisce un dispositivo estetico ad alto potenziale mitopoietico per mettere in moto un processo relazionale ed empatico di mediazione simbolica tra l’artista, il fruitore e la realtà cangiante di ieri e di oggi. Dunque, sempre sulla scorta di Warburg, nel suo progetto l’artista parte da un tema, la storia dell’Olandese volante, per espandersi, trasgredendo frontiere disciplinari e ambientali, verso i vari contesti culturali che ne hanno partorito le più variegate rappresentazioni. 

In una sequenza filologico-immaginativa, l’artista ripercorre la rotta del vascello fantasma solcando il mare dell’ignoto segnalato fin dall’inizio da un uccello migratore staccatosi dallo stormo per appostarsi, come occhiuto guardiano, sulla custodia-scrigno dell’Atlante. La navigazione ha inizio con venti favorevoli, rinforzati in direzione pop dalla maglia esposta in teca di Marco Van Basten e Robin Van Persie, preziosa reliquia dei mitici “olandesi volanti” della storia del calcio mondiale. Naviga attorno a una imponente torre scenica, ovvero una vera e propria macchina teatrale, con quinte e scene disegnate dall’artista, che richiama l’attenzione dello spettatore a godere dello spettacolo dal vivo all’interno del teatro-maquette, dove va ininterrottamente in scena il teatro della vita. 

Affronta il mare aperto, ora scosso dalla tempesta, ora soffocato dalla bonaccia, in compagnia dei dannati dell’Olandese volante, enigmatiche presenze segnalate da sculture, di raffinata fattura, di teste di marinai e uccelli, così familiari e così vicini da poter essere toccati.

Fino al momento cruciale, citazione diretta di Der Fliegende Hollander di Richard Wagner, dell’incontro tra i due vascelli, del Norvegese e dell’Olandese, in un mare che minaccia ancora tempesta e richiama dalla riva un gran numero di spettatori per essere testimoni delle fasi finali del dramma del capitano nell’estremo tentativo di liberarsi dalle spire fatali dell’incantesimo. 

E da ultimo, la tappa della redenzione nella sublimazione dell’amore che conduce ad un approdo di salvezza, ma nella dimensione della trasfigurazione, con i contorni del miraggio e dell’incantamento nella luce, che sarebbe accecante e irresistibile se non mescolasse realtà e finzione in un rimando di rispecchiamenti senza fine. Unica possibilità per la realtà di mostrarsi venendo alla luce, e dunque alla visione, nella addomesticata e accessibile parvenza dell’imago

 

Con questo viaggio immersivo, partecipando da attori dell’“immaginazione produttiva” di Fabrizio Cotognini, fatalmente percepiamo una nuova esperienza del tempo, che non è più un puro fluire di istanti che si succedono in una linea infinita, perché la sua pratica artistica pesca in una dimensione più originale operando una ‘lacerazione’ e un ‘arresto’ del flusso temporale. Attingere al repertorio iconografico del passato per scomporre e ricomporre immagini sul filo di interventi pittorici, grafici e notazioni che danno loro un nuovo corso, vuol dire infatti riconsegnarle ad “un tempo più originale”, dove, suggerisce  Giorgio Agamben «artisti e spettatori ritrovano la loro solidarietà essenziale e il loro terreno comune». 

Consapevole dello strappo, dal sistema tradizionale della cultura, che esiste solo nell’atto della sua trasmissione con le credenze e nozioni che la sostanziano, al passaggio attuale delle società non-tradizionali caratterizzato dall’accumulazione della cultura e dal suo distratto consumo, Fabrizio Cotognini mette a punto il suo progetto artistico. Sulle orme di Joseph Beuys, da “artista come provocatore”, riannoda il filo spezzato con il passato risalendo alle radici culturali recuperate attraverso la citazione, ovvero attraverso il valore-estraneazione in cui si riaccende l’epifania estetica. Con piglio intenzionale dà la stura al suo inesauribile estro per essere attore fattivo della costruzione culturale del nostro mondo-ambiente, «dove la verità, ogni verità – ricorda Carlo Sini – è una figura di un transito o una figura che transita in un progetto, non come cosa ma come serie di relazioni, così come l’umanità è un cammino».

Per rendere dunque più agevole tale cammino, l’artista raccoglie tutti i canali comunicativi, affastellati in una logica dell’accumulo, all’interno di una magnifica articolata narrazione che pur aprendosi a continue scorribande attraverso la letteratura, il cinema, il teatro, la fotografia, il disegno animato e la musica, assegna un’assoluta centralità all’esperienza del saper fare, fondato sulla profonda conoscenza delle tecniche e della materia. Elementi costitutivi e tessuto connettivo della scrittura viva del corpo, che, nel suo relazionarsi, scrive il reale e costruisce il mondo, ricucendo il passato al presente per imbastire, con il suo segno dilagante, anche il futuro. Mentre, come una lontana risonanza, vibra ancora forte la eco lanciata proprio in queste stanze da Magdalo Mussio con il suo Theatro dei segni, erranti, senza patria, in mare aperto, come l’Olandese Volante alla deriva, ma sempre alla ricerca di un approdo in un nuovo, sia pure precario e provvisorio, inedito senso.